Agli inizi del secolo scorso Chiavaro, Direttore del Ccorso di Clinica Odontoiatrica dell’Università di Roma, fornì interessanti indicazioni sulla tecnica del “reipiantamento dei denti”. Consigliò, dopo la cura canalare con guttaperca, “di arrotondare e ridurre di un paio di millimetri l’apice radicolare, impiantando il dente solo quando fosse cessata l’infiammazione acuta dell’alveolo leso”. Al momento del reimpianto raccomandò di ricruentare nuovamente l’alveolo e farlo sanguinare. Affermò di avere avuto casi di successo anche reimpiantando denti dopo un mese, purché mantenuti in soluzione di fenolo al 25%. Se l’alveolo si fosse ristretto durante l’attesa, consigliava di allargarlo con apposite frese “calibrate” che aveva fatto costruire appositamente. Riportò i reperti istologici dei suoi reimpianti sperimentali nei cani, in cui dimostrò che la radice del dente reimpiantato si univa alla parete del processo alveolare per anchilosi, dopo che i resti del legamento alveolo-dentario, rimasti attaccati al cemento, erano stati completamente riassorbiti (3).
Interessanti le sue osservazioni sulle prove cliniche dei denti reimpiantati e bloccati per il predetto processo di anchilosi: “Se si batte con un corpo metallico sui denti normali, si sente un suono profondo ed ottuso, come se si battesse su un tavolo di legno coperto da un tappeto, mentre, se si batte con lo stesso corpo su un dente reimpiantato, si ottiene un suono alto e timpanico come se si battesse sullo stesso tavolo privo del tappeto. Se si imprimono movimenti di “va e vieni” ad un dente normale, si sente che esso leggermente cede a causa della sua articolazione legamentosa alla cavità alveolare, ma se si imprime lo stesso movimento ad un dente reimpiantato, questo non si sente cedere”.
Dopo il discutibile, ma allora dominante allarme sull’infezione focale lanciato da Rosenow nel 1929, i reimpianti furono decisamente condannati (4).
Ripresero solo dopo che il perfezionamento delle terapie canalari arrestò la sconsiderata terapia delle estrazioni “profilattiche” di ogni dente con patologia apicale.
Nel 1939 Hoffer e Buy diedero relazione di una statistica di 31 casi di reimpianto eseguiti nella Clinica Odontoiatrica dell’Università di Milano, concludendo, sulla scorta dei controlli radiografici e dei favorevoli risultati clinici, che “agli effetti della prognosi del loro consolidamento e della loro durata andava assegnata la massima importanza all’integrità dell’alveolo ed alla scelta del materiale di otturazione dell’apice radicolare” (5).
Haupl, Direttore alla Clinica Odontoiatrica dell’Università di Innsbruck, alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, era favorevole ai reimpianti da eseguire sia con i denti espiantati per trauma, sia con i denti impossibili da trattare con adeguata terapia canalare o apicectomia. Citava in proposito le esperienze sui cani di Hammer e di Axhausen (6, 7, 8).
Favorevole ai reimpianti fu anche Thoma. Nel suo “Trattato di Chirurgia Orale” vi dedicò un intero capitolo. In esso riferì che J. Faust aveva eseguito 270 reimpianti, con 252 risultati positivi, con periodi di permanenza da uno a dieci anni. Aggiunse che Krueger aveva seguito radiograficamente il lentissimo riassorbimento di un dente reimpiantato e rimasto in sede, solido e funzionante per 18 anni (9, 10 ,11).
Riferì anche che Ljungdahl e Martensson, che avevano reimpiantato quattro incisivi superiori due ore dopo il trauma mantenendoli bloccati per quattro mesi, avevano osservato che tre di essi, con gli apici non ancora formati, si erano perfettamente anchilosati entro gli alveoli ed avevano dato risposte positive alla prova elettrica di vitalità. La radice di un incisivo centrale, con l’apice completamente formato, era invece stata riassorbita e fu estratta. Secondo i due autori, nell’incisivo ad apice completo, i vasi pulpari, lacerati dall’espianto, non si erano potuti riformare. Il vasto lume dell’apertura apicale e la stasi ematica alla polpa degli altri tre denti avrebbero permesso la rivascolarizzazione del follicolo dentale, che vi era rimasto adeso. Conclusero che la differenza fra il reimpianto dei denti non ancora definitivamente formati e quello dei denti ormai sviluppati consisteva nel fatto che “i primi potevano riprendere la vitalità della polpa, mentre i secondi si sarebbero dovuti reinserire solo dopo un’accurata otturazione canalare”.
Ljungdahl e Martensson non chiarirono se la rivitalizzazione della polpa fosse da riferire solo alla ripresa della circolazione emolinfatica o anche al recupero della sensibilità nervosa, comunque indirettamente confermata dalle prove di vitalità, controllate dalle reazioni dolorose alla stimolazione elettrica (12).
Thoma si limita a riportare la comunicazione, senza aggiungervi commenti. Il fatto che egli poi documenti con una serie di radiografie il caso di un suo reimpianto di germe dentale tolto da una cavità cistica, che giunse alla completa formazione delle radici erompendo regolarmente, potrebbe essere tuttavia interpretato come una conferma indiretta del recupero della conducibilità nervosa, segnalata da Ljungdahl e Martensson.
Numerose sono le pubblicazioni in tema di reimpianto dei denti.
Il diametro dell’apice radicolare, il tempo e la permanenza in sede extraorale possono influenzare la rivascolarizzazione dell’elemento reimpiantato, come dimostrano recenti studi (13, 14, 15).
La durata dei reimpianti è in diretto rapporto:
- con lo stato di integrità dell’alveolo beante;
- con l’intervallo di tempo intercorso fra l’espianto ed il reimpianto e con la vitalità residua del dente;
- con l’abilità chirurgica dell’operatore;
- con l’efficacia del suo temporaneo bloccaggio ai denti vicini e della sua protezione dagli stress occlusali.